Questa fretta, questa frenesia, c’è chi la regge e c’è chi no.
Smettetela con questa fretta.
Tutti, tutte, chiunque di noi muore a stento, ma solo alcuni,
più o meno a stento,
sopravvivono.
C’è chi rinasce, chi può farlo. E tra questi, i sopravviventi,
c’è chi sa e può rinascere meglio,
chi peggio.
C’è però chi proprio non rinasce: non riesce, non può.
E questi non sono (solo) quelli che chiami “i deboli” nel tentativo di
fuggire all’orrore di te pensandoti
tra i giusti con qualche compromesso.
Tra chi a rinascere non riesce, non può, posso esserci anche io,
ci sei anche tu.
E sai che sto dicendo il vero.
Sì, c’è chi “ho paura“, “non mi sta bene“, o sia pure il più basilare
“no“,
c’è chi non è in grado di dirlo.
Non è in grado perché a un certo punto l’isolamento interiore – che è
pandemico da ben prima della pandemia – questo va a risonare con
un oggettivo isolamento civile e sociale che smembra:
i corpi
i fiori
il pane
le dita di Clara Josephine Wieck in Schumann
le api e
i ghiacciai
le erbe d’Ildegarda di Bingen e
i sogni dei geografi incolpevoli
i dodici regni di Sundjata
le rose in dono a Fleming e
il quarto movimento della nona sinfonia di Beethoven
l’amore luminoso di Caravaggio l’oscuro
Manden Kurufa
Pittore in Africa e
i corpuscoli nel sangue di mia sorella
a Lesbo, e insomma
tutto quel che fu.
O c’è anche chi non può dire
“ho paura”, “no”, perché – qual che sia la propria condizione
civile, economica e sociale –
il rintocco sordo dell’isolamento a volte, oggi molto spesso, è
soverchiante già di per sé, e gli stratagemmi
a un certo punto finiscono,
usati talmente tante volte da essere sempre più spuntati e poi del tutto
inservibili. Nella fretta,
questa fretta qui d’adesso tutt’intorno a noi.
I primi – quelli in cui isolamento interiore e civile vanno in risonanza ed è finita –
questi sono:
i poveri
gli ultimi e i secondi
i migranti
la gran parte dei carcerati
molti vecchi e
adolescenti tanti;
e chi è diverso – a qualsivoglia titolo – in un mondo che brama ed esige soltanto
il somigliante,
l’Uguaglianza;
e ancora i cittadini che si abitano senza nulla poter contare
solo soldi potendo far contare
ad altri come me.
Per esempio: i corpi fantasma che nascono in Italia e, pur corpi,
non hanno la mia cittadinanza.
Sì, “uguaglianza“. Anche nel senso della borghese
Égalité, proprio quella lì.
Un principio che,
magnificato astratto fino a soffocare il resto,
è arma:
di omicidio-suicidio di massa.
Suicidio-omicidio ch’è stillicidio. Un’arma
in mano tua
e mia: click! Silenzio.
La guerra è già qui. Chi ci salverà?
Può ancora salvarci il soldato che la guerra rifiuterà?
Non soltanto non tutti siam Dante, ma
fuor dai sogni drenati in borsa valori, è evidente che:
nessuno di noi, oggi, può più esserlo. Dante.
Pertanto ad un certo momento, a non riuscire a riveder le stelle puoi essere anche
tu.
In quel momento non vorrai che qualcuno ti metta fretta,
in quel momento non sentirai voci di bontà,
non avrai quasi più nessuna gioia,
e in quel momento, anche, non vorrai
che qualcuno voglia dirsi uguale a te.
Sì, in quel momento a non riuscire a riveder le stelle sarai
tu: perché in questa guerra è previsto che sopravviva
solo chi comanda,
ed è vana questa tua ambizione triste. Questa qui:
l’ambizione d’essere tu un giorno chi comanda.
Chi comanda è oggi
solo e soltanto chi comandava già,
chi comandava già prima che la guerra fosse qui.
Non c’è posto per te dunque, tra i comandanti.
C’è però, sì, ancora spazio tra i disertori.
Chi diserta ricorda ancora
qualche melodietta bambina su cui danzare:
insieme,
qui e ora. Tra i disertori pure c’è
chi è più fortunato,
chi meno, ma la legge della diserzione
– è legge danzata, e scritta con mestruo con sperma,
non filigrana d’algoritmo dal parlamento azionario dei ricchi –
la legge della diserzione, questa legge
dice che:
il disertore più fortunato impari i passi della danza
da quello meno fortunato, e in cambio
parli
per i disertori muti,
danzi
per i disertori sciancati,
gesticoli con chi intenda i gesti,
ascolti chi canta anche soltanto muovendo il sopracciglio;
non voglia che parli chi non può parlare
non neghi la parola a chi parlare può.
C’è spazio, sì, tra i disertori,
perché chi diserta – e non siamo pochi, né poche, né pochə, poch*, pochx o come ci pare –
chi diserta ancora ricorda
insieme, in barba agl’azionisti al codice binario,
chi diserta ricorda
senza fretta
tutto ciò che sarà.
A Seid Sivin, a Moussa Balde, a chi è nei CPR, a chi pur essendo vien detto: “non sei!”. A chi vede il futuro e quindi passa i monti e i mari, a chi vede il futuro e non li passa, alle mie amiche e amici suicidi, uccisi da me e da te: troppe, troppi. Alle mie colleghe e colleghi musici, spesso in formazione ancora, che non reggono l’esplodere frenetico colto cortese del merito, del valore, dei loro simili nel tempo resi fantasmi persecutori. A chi non è uguale. A me stesso.