Poche cose sono micidiali, nella nostra epoca, come la retorica del “sacrificio”.
Nelle codifiche religiose precristiane – poi in parte assunte e risignificate in epoca cristiana – la parola “sacrificio” stava per “fare il sacro” (latino: sacrum facĕre, da cui săcrĭfĭcĭum ). In antico il Sacro (lat.: sacer, sacră, sacrum) indicava tutto ciò che era radicalmente Altro rispetto al Pubblicum, la collettività formalizzata, e quindi – nell’intendimento degli antichi – era a questa opposto e, proprio per tale oppositività, ineluttabilmente complementare. Infatti si facevano i riti, e dunque i sacrifici, proprio per ri-armonizzare all’occorrenza Sacro e Pubblico, alterità e normalità, oppure per prevenirne e scongiurarne la dissociazione, che era percepita come sbagliata: “contro natura”, diremmo noi.
A noi moderni questa logica (“antitetico quindi coeso”) sembra ossimorica, assurda, onirica – per i più zombieficati fin provocatoria – ma per gli umani antichi di molte culture (incluse quelle italiche) era perfettamente coerente e naturale, tant’è che in varie lingue antiche si trovano molte parole con duplice significato antitetico, che solo successivamente, nel corso dell’evoluzione linguistica, si sono scomposte in due distinti termini; per esempio – osserva il glottologo tedesco Karl Abel già nel 1884 – nei geroglifici egizi la più antica parola ken (che significa sia “forte” che “debole”), si sdoppia in seguito nelle distinte parole ken (“forte”) e kan (“debole”). Gli strati più antichi delle lingue sono pieni di casi come questo. Oggi quasi la sola musica, se fatta prima e oltre un qualsivoglia mercato, custodisce il codice di questo stadio aurorale dell’intendimento umano, il sacro.
Man mano che poi ci si è avvicinati allo stato attuale della civiltà, le parole si sono andate viavia specializzando, cioè a ciascun concetto si è progressivamente associata una singola parola, dal significato il più possibile univoco.
Ciò è andato a favore di una chiarezza razionale tra i parlanti moderni, ma in questo modo abbiamo anche perduto (e oggi pericolosamente!) l’esercizio della comprensione dell’interdipendenza tra le cose del mondo, e con essa la capacità di pensare da svegli con la stessa forma di pensiero umano caratteristica del sogno, della musica e dell’utopia positiva, cioè l’analogia, l’ossimoro pacificato, l’armonia, la sintesi degli opposti, la coesistenza delle differenze – e qualcuno, più stronzo e sacrilego di altri, su questa perdita ci ha fatto e ci fa parecchi soldi sopra, spargendo sangue e sofferenze assortite… Ma questo è un altro discorso (oppure no?).
Come che sia, quando ancora, giustamente, ritenevamo naturale la convivenza delle differenze, “fare il Sacro”, cioè appunto il sacrificio, era celebrare l’Altro in collettività nel rito, evocare ciò che valica la norma, che supera la normalità, per armonizzare ordinario e straordinario, maggioranze e minoranze, umano e divino.
Dicevamo, ad avvio del nostro discorso, della pericolosità dell’attuale retorica del “sacrificio”.
Dico ora ‘retorica’ nel suo significato deteriore, perché “sacrificio” è oggi parola non solo svuotata del suo senso, sganciata dalla sua cosa, ma anche fatta divenire di senso del tutto ribaltato: da “fare il sacro” a “distruggere il sacro usando la sua immagine astratta”.
Ciò che intendiamo oggi per “sacrificio” è infatti slegato dai riti, cioè dalla collettività: è un atto individuale. Anche quando, nel discorso pubblico, ci si rivolge non a un individuo ma a un gruppo di persone chiedendo di “sacrificarsi”, di “fare dei sacrifici”, ci si riferisce alla immagine di una massa, non già a quella di collettività come rete dialettica di individui; cioè in fondo ci si rivolge a un individuo indistinto, l’individuo-massa. Di solito è infatti così che la parola “sacrificio” è usata e pronunciata – vera e propria arma – dai leader politici fascisti (“sacrificarsi per la patria”), liberisti (“sacrifici per il pareggio di bilancio dello Stato”), eccetera, nonché dai capitalisti e dai loro sgherri, nelle imprese sia private che oggi anche pseudopubbliche, quando parlano ai sottoposti al ricatto dello stipendio (“sacrificarsi per l’azienda / la scuola / l’arte (?!?) / l’ospedale / i clienti / l’eccellenza / il territorio / la qualità / la cultura (?!?) / il numero di like e reactions, etc”).
Quella su “sacrificio” (“sacrificarsi”, “sacrificare”, etc) è dunque una retorica insidiosissima, perché – usando il Sacro svuotato – si insedia viscidamente nell’animo di ognuna e ognuno di noi mascherata da virtù individuale, così facendoci (egoisticamente) sentir meglio con noi stesse/i, inclusi nella cosiddetta normalità. Il pennino assassino di questa retorica ci eroifica dentro un’epica mistificatissima e fasulla, a uso e consumo di chi detiene un qualsiasi tipo di controllo sociale e/o economico, da quello di un individuo su un altro in una coppia, a quello di una maggioranza (o di una minoranza violenta) su una o più minoranze, a quello di un ceto (per esempio l’imprenditoriale) su un altro (per esempio quello che [soprav]vive di salari e compensi), fino a quello su intere popolazioni. Non a caso è tra l’altro una delle leve più potenti e surrettiziamente violente che si sono usate e s’usano contro le donne, o contro il femminile in genere (anche quello negli uomini e in chiunque). Questa retorica è uno dei sintomi (e delle cause) più evidenti, a volerli leggere, della pericolosità, per noi esseri umani di oggi, della polarizzazione oppositiva, disarmonizzante, binaria, digitale.
Il “sacrificio”, inteso com’è oggi, è uno dei più efferati, sottili e pericolosi attacchi al sacro in tutte e tutti noi. E – come osserviamo nelle cronache ogni santo giorno – é letteralmente micidiale: cioè che uccide esseri umani.
Tu, adesso, per chi o cosa ti stai sacrificando? Perché?