Di là della deriva

La punta della matita può eseguire un sorpasso di coscienza
Mario Merz
_
Ci sono questioni vissute dal vivo – non poche né di poco conto – che incontrano limiti insormontabili nella loro formulazione teorica. Al netto delle preoccupazioni quotidiane per la realtà materiale di base, ciò è vero per chiunque di noi, anche se, come nel mio caso, non si fa l’intellettuale e la ricerca teorica non è nostro mestiere e passion predominante.
Certo, è vero, si può insistere la ricerca d’una formulazione teorica di tali questioni, pure fino a certi spasimi: non solo è ben lecito ma è anche stimolante, eccitante, e in fondo anche a questo servono i limiti. Pure, per quanto possiamo insistere, prima o poi giungiamo sempre innanzi a tale insormontabilità.
Quando arriviamo a questo punto, tocchiamo questo limite, le questioni (ciascun le sue) possono venire espresse solo per illuminazioni, esperimenti di pensiero, flussi di induzioni e deduzioni talmente tanto veloci e intrecciati da risultarci invisibili, trasparenti. Peraltro queste forme di pensiero – i balli vorticosi sulla finis terrae della coscienza – sono possibili solo nel contesto di relazioni e rapporti con altri umani, e poco conta la forma e il dispositivo della relazione, se cioè sia una lettera, l’insegnamento, una curatela d’arte, alcune zone temporali in un rapporto erotico, o magari un determinato istante nella lettura di elaborati di pensiero altrui che in altri momenti sono del tutto innocui.

C’è chi vive queste soglie di coscienza con un disagio tale da giungere a mortificare se stesso, o – se si sta ancora peggio – a far male ad altre persone, pur di provare a fuggire l’ambiguità drammatica d’essere in bilico sulla propria subitanea finis terrae.
C’è chi invece scrive una lettera, mette in dubbio quanto insegna nell’istante in cui lo insegna, mette da parte il professionismo per fare spazio ai rapporti di cui quello stesso professionismo è (dovrebbe essere) principio ed esito, o magari chiama un’amica per prendere un caffè insieme, o forse va al bar e mangia un gelato scambiando col barista qualche parola più bizzarra del solito.
E c’è pure, tra noi – forse anche tu se riesci, puoi e vuoi – c’è pure chi inizia a tracciare segmenti di canto, lacerti di versi, tratti e segni – parvenza di geometrie o campiture allo specchio che siano. Tutte quelle cose, cioè, che se amiamo – e amiamo anche nonostante – potranno forse diventare canzone, sinfonia, quadro, installazione, poesia, e così aiutare gli altri, con te, a non morire sul limite della propria finis terrae.
Può accadere, allora, che nel coro tu diventi bufera, col vento, con me. Sono io a soffiare adesso, e tu a un’altra di queste finestre, o sotto un albero, sul limite del marciapiede sbreccato, da qualche parte di là del colle, dell’archetipo, del giardino, della deriva.
Non per altro, in fondo, che per tentare di morire in bellezza – tentare, almeno tentare – nel giorno qualunque in cui ci accadrà.





Occidentalismo: la cancel culture dei dettagli minori

In molte persone nate e cresciute nel cosiddetto Occidente è radicata l’idea che la cultura sia altro dalla politica e perciò, in quanto bellezza, goda di una sorta di innocenza e di una presunta pur vaga neutralità.
A esser franchi tra noi, spesso usiamo questa convinzione con una selettività piuttosto sospetta, per esempio indignandoci, fino alla volontà di censura, quando qualche artista esprime in arte una posizione politica contraria alla nostra, ma non quando lo stesso, o qualche altro, ci conforta nelle nostre opinioni.
Il pregiudizio d’una separazione tra cultura e politica è molto diffuso anche in Italia, dove pure le arti e le vicende politiche si sono intrecciate più che altrove, e la stessa percezione di identità nazionale è stata fondata anche sulle letture risorgimentali e post-risorgimentali dell’opera di artisti cardinali come Giuseppe Verdi e di molti pilastri della letteratura italofona.

Dietro la cortina fumogena di un’idea astratta di bellezza, questo pregiudizio nasconde posizioni di comodo, la paura di leggere la complessità e le contraddizioni del nostro mondo, e quella di fare a noi stessi domande che mettono in discussione la consistenza della nostra identità fin personale.
Queste nostre paure sono certamente lecite, e i disagi che ci provocano non vanno sottovalutati né condannati apriori, ma se le interroghiamo insieme possiamo scoprire un mondo di possibilità per noi stessi, che infine si rivelano sempre più convenienti di atteggiamenti di chiusura e difesa preventiva. Infatti molti dei mostri che ci assediano si rivelano sempre nulla più che fantasmi altrui, appena li guardiamo ben dritto in faccia: credenze che qualcuno ci ha messo dentro senza che ce ne accorgessimo, non elaborazioni di pensiero davvero nostre.
Di solito non vanno molto lontano i tentativi di sfatare questo pregiudizio in astratto, sulla base degli innumerevoli dati storici e fattuali che lo contraddicono senza eccezioni e clamorosamente. Forse ci è allora più utile osservare insieme alcune vicende recenti e attuali, che sentiamo riguardarci più da vicino anche se non sappiamo perché, nel gran fracasso di opinioni che ci frastorna ogni giorno. Andiamo quindi ora a osservare e interrogare insieme alcune vicende culturali, per noi importanti anche se ci paiono marginali, nell’attualità di due dei grandi conflitti in corso attorno a noi: quello in Ucraina e quello nell’area che impropriamente chiamiamo “Medio Oriente”.

A febbraio 2022 la Russia avvia un attacco su larga scala contro l’Ucraina, e subito istituzioni e media Occidentali hanno fatto azioni di annullamento e censura, inclusa quella preventiva, contro oggetti o eventi culturali connessi alla Russia. Ricordiamo ancora, in Italia, l’annullamento di un corso di Paolo Nori su Dostoevskij all’Università Bicocca di Milano, o quello, non solo in Italia, di concerti con musiche di Čajkovskij in sale e con orchestre prestigiose.
Subito dopo l’orrore contro cittadine e cittadini israeliani del 7 ottobre 2023, è stato il turno della scrittrice Adania Shibli, alla quale la Fiera del Libro di Francoforte, in Germania, ha annullato la consegna del prestigioso premio letterario LiBerarturpreis, assegnato al suo romanzo “Un dettaglio minore” (titolo in lingua originale: “Tafṣīl Ṯānawī“, trad. italiana di Monica Ruocco, edizioni La nave di Teseo). Il premio, peraltro solo l’ultimo di una sfilza, era stato assegnato ad Adania Shibli, ma lei è palestinese, e il romanzo racconta eventi che investono la Palestina e la sua storia, quindi Shibli è stata ritenuta inopportuna, colpevole e pertanto la sua voce va messa a tacere o almeno depotenziata, come già quelle di Dostoevskij e Čajkovskij.
Intanto il panorama mediatico attorno – italiano e del cosiddetto Occidente – è caratterizzato da tifoseria disinformata e/o capziosa, e dalla sistematica negazione perfino della documentazione minima dei fatti sugli eccidi immani compiuti dall’esercito israeliano: se qualche documentazione ci arriva è solo perché con internet possiamo avere accesso a canali d’informazione non Occidentali, a opera peraltro dei soli giornalisti palestinesi sul campo, che stanno pagando con la vita questo loro tributo alla dignità del mestiere di giornalista.

Istituzioni pubbliche e private, grandi media e gigantesche aziende transnazionali hanno sempre usato un arsenale più o meno scaltrito di azioni come la censura, il mancato riconoscimento, la messa a fuoco selettiva di un dato a scapito di ogni altro, fino alla vera e propria riscrittura dei fatti – in Italia ne è un esempio recente la santificazione di Berlusconi a media unificati coi funerali di Stato. Come nota il linguista e filosofo Noam Chomsky: « Chi detiene il potere, sia politico che economico, ha sempre attuato una forma estrema di “cultura dell’annullamento” [nell’originale inglese: “cancel culture”], distruggendo libri, editori, carriere accademiche, mettendo a tacere le voci non gradite ».
Tali azioni sono ovviamente turpi, cretine, pericolose per chiunque di noi. Non sono infatti gesti simbolici causati dalla legittima volontà di segnalare errori storici o attuali, dopo presa di coscienza da parte di una o più minoranze fino a quel momento oppresse, negate, annullate. Al contrario, queste azioni istituzionali di Cultura dell’Annullamento sono fatte da “chi può”, o almeno è convinto di Potere, sono cioè armi tattiche di scrittura e controllo delle nostre menti, del nostro immaginario, delle nostre possibilità di comprensione e di futuro.

Oggi un oggetto culturale – come un libro, una mostra o un concerto di musica d’arte – o le vicende che riguardano teatri, enti lirici, centri di produzione, sono tutti percepiti, indistintamente, come una faccenda per élite che hanno avuto la fortuna di poter studiare, o che sono abbastanza ricche per fingere di averlo fatto. Anche per questo tendiamo a percepire tali vicende come poco rilevanti, marginali, ininfluenti sulla nostra esistenza quotidiana e il nostro futuro.
È vero che molti enti e istituzioni culturali tendono alla conferma autoreferenziale della presunta superiorità di un gruppo sociale sugli altri, e quindi agiscono, bene che vada, con un paternalismo respingente, ma lo stesso è il caso di ricordarci che la prima azione di ogni movimento autocratico o totalitario, appena ne ha gli strumenti minimi, è proprio piazzare propri uomini (oggi anche donne) nei centri di produzione e diffusione della cultura: enti lirici, TV, organizzazioni editoriali, festival, musei, teatri. Ciò perché, una volta che hai privato le persone della possibilità di approfondire, di ricevere ed elaborare diversi punti di vista, allora potrai fare qualsiasi cosa, anche le più disumane e indicibili, riducendo al minimo l’uso di quella violenza materiale che potrebbe provocare più facilmente una resistenza.
Quindi, sì, la cancellazione in Europa di un premio letterario prestigioso a Adania Shibli, scrittrice palestinese, non solo ci segnala il fatto che la cultura è tutt’altro che neutra – o al minimo non è trattata come tale da chi ha influenza politica ed economica – ma ci riguarda anche su molti livelli della nostra storia e attualità politica, in Europa e nel cosiddetto Occidente.

Ribadita tra noi la costante e ineludibile gravità di ognuna di queste azioni di censura, è ora importante notare come il caso di Adania Shibli e del suo romanzo – già dall’immediato post 7 Ottobre 2023 – è sintomo di un salto di qualità in questa Cultura dell’Annullamento (Cancel Culture propriamente detta). Si tratta di un salto allarmante perché, se non lo rileviamo, diventa un’altra delle tante porte che continuiamo ad aprire verso l’Abisso.
Infatti, possiamo pure tentare di “cancellare” Dostoevskij o Čajkovskij, ma ci risulta immediatamente ridicolo anche il solo ipotizzare che questa “cancellazione” possa avere successo. Ok, d’accordo, possiamo annullare un concerto, due, tre, o qualche corso universitario qui e lì, ma Dostoevskij o Čajkovskij resteranno comunque lì dove stanno da un paio di secoli. Ciò perché dal nostro punto di vista (diverso da quello, per esempio, di ucraini, georgiani o estoni) la entità mentale, storica e culturale che chiamiamo “Russia” è un dato consolidato, riconoscibile, riconosciuto; un dato intessuto fittamente nella nostra visione del mondo anche in caso di conflitti con la sua attuale incarnazione statale o governativa.
Pure a voler ragionare per forza in termini di presunta realpolitik d’un Mondo che coincide col Mercato, provate a dire alla Disney di cancellare, dai suoi cataloghi e dalla sua storia, “Fantasia” con le musiche di Čajkovskij; provate a intimare alla Google Inc. di eliminare qualsiasi riferimento a Dostoevskij in ogni testo letterario e filosofico, in ogni sceneggiatura di film e serie TV indicizzati, e così via. Fuor di fantasticheria distopica, o di delirio d’onnipotenza burocratica, nel concreto potremo forse ottenere che “Fantasia” per un breve periodo non stia tra i film in primo piano su Disney+, magari otterremo che nei risultati di ricerca su Google i riferimenti a Dostoevskij stiano per un po’ in seconda pagina, ma nulla più di questo. Se non altro, perché ci vanno di mezzo troppi soldi delle due aziende-mostro.
Discorso analogo vale se osserviamo la pretesa di cancellazione di oggetti culturali che riguardano la Russia, alla luce dei fittissimi intrecci d’interessi finanziari transnazionali – e delle loro prospettive future – tra la entità Russia e il resto dei paesi cosiddetti ricchi (gli stessi interessi, del resto, che hanno determinato l’ambiguità e doppiezza omicida del cosiddetto Occidente nella vicenda di Aleksej Navalny).

Nel caso di Adania Shibli, e delle vicende palestinesi nel suo romanzo “Un dettaglio minore”, il discorso è molto, molto diverso. Abbiamo constatato insieme che l’immagine mentale “Russia” è ben poco cancellabile in noi cosiddetti Occidentali, ma lo stesso non possiamo certo dire dell’immagine che abbiamo di “Palestina”. Ciò non soltanto perché le forme istituzionali di questa entità non sono per noi immediatamente riconoscibili, ma perché tutto, nella mente occidentalista, rema contro la possibilità stessa che riusciamo a consolidare un’immagine mentale chiara di “Palestina”.
Già a una prima osservazione di questa porzione di Mondo, la Palestina, rileviamo subito come sono complesse e molto articolate sia le questioni geografiche (per esempio, come tracciare confini in un territorio che ha vaste e irregolari zone desertiche?), sia le questioni antropiche, cioè la storia politica, e ciò fin dai primi insediamenti stanziali individuati, di Sapiens e Neanderthal, dalle parti dell’attuale Gerico.
Ora potremmo pure osservare il fatto che la grandissima parte di noi associa nomi come “Gerusalemme”, “Betlemme”, “Giordania”, “Filistei”, a poco più che alle letture in parrocchia, a qualche film sulle Crociate, o magari, nei casi più fortunati e privilegiati, all’opera di uno scrittore del ‘500 chiamato Torquato Tasso. Questa osservazione è rilevante, ma in questo momento evitiamo di aggiungere elementi a un discorso già abbastanza complesso. Continuiamo dunque osservando che dal ‘900 fino a oggi il territorio della Palestina è passato, con la Prima Guerra Mondiale, dall’Impero Ottomano all’essere un protettorato britannico, cioè, detta in soldoni, una colonia soft. Così è stato fino a quando, subito dopo la Seconda Guerra Mondiale, nel territorio del protettorato britannico sorge lo stato di Israele, e non anche quello di Palestina che pure era previsto. È il 1948, cioè l’anno della Nakba Palestinese, la letteralmente “Catastrofe Palestinese”: l’espulsione di massa di circa 750 mila palestinesi dai luoghi in cui vivevano. Nella lettura di molti storici, anche israeliani, è un momento cardine d’una lunga pulizia etnica, cancellazione non solo statale ma anche nazionale, cioè non si tende “solo” a cancellare lo Stato-non-nato, la Palestina, ma anche il popolo che avrebbe dovuto risiedervi, le e i Palestinesi, vale a dire gente d’ogni genere e d’ogni età, con degli affetti, un corpo, un’esistenza, una cultura e una storia: come te e me.
Non è adesso il momento per addentrarci insieme nell’enorme complessità delle vicende specifiche tra israeliani e palestinesi, Israele e Palestina, non solo perché c’è chi lo sa e può fare molto meglio di noi – sia di me che di te – ma perché qui stiamo osservando ciò che riguarda i cosiddetti Occidentali, la nostra situazione, la nostra postura.
Dal nostro punto vista di cosiddetti Occidentali, dunque, la Palestina è una di quelle parti di Mondo che, in coda ai secoli direttamente coloniali, avevamo preso ai fascinosi cattivoni Orientali, cioè l’Impero Ottomano.

Ora, noi italiani abbiamo il Mal d’Africa per le nostre care ex colonie, e quindi ci piace andare in vacanza in quei posti, intrattenere rapporti economici e politici con qualunque filibustiere li governi, e intervenire (anche militarmente) a difesa dei nostri interessi da quelle parti. La stessa identica cosa vale per tutti gli altri paesi che avevano e hanno colonie in giro per il Mondo. Di conseguenza noi cosiddetti Occidentali tendiamo a non essere granché lucidi e onesti quando si tratta di farci un’idea di quei posti, di studiarne la storia, le culture, le dinamiche sociali, politiche, economiche, cioè insomma quando si tratta di capire, e casomai solo dopo cominciare a valutare se ed eventualmente come fare qualcosa.
Diciamocelo pure con schiettezza tra noi: di ogni posto e dintorni che fu “nostro” abbiamo solo un’idea di parte (la nostra), molto vaga, che esclude (o ben che vada neutralizza e ingloba) lo sguardo altrui su noi (noi possiamo vedere, ma che fastidio essere visti!). Il risultato è che di questi posti abbiamo un’idea mitizzata, fantasticata, esotica più spesso che no.
Se ci sono dei ribollii politici dalle parti delle ex colonie Occidentali – tumulti, rivolte, movimenti di rivendicazione – la prendiamo sul personale, come se in qualche strano modo ce l’avessero con noi e fossero sempre I Soliti Cattivoni Ingrati. Se in quei luoghi le questioni interne d’ogni tipo superano una soglia di guardia, che stabiliamo a nostra convenienza, ci vien subito d’intervenire come si fa con bimbetti fastidiosi che turbano la quotidianità operosa degli adulti. E ovviamente ci fa molto piacere se in quei territori c’è qualcuno (sia esso “buono” o “cattivo”) che in vece nostra fa i nostri interessi, o almeno non li ostacola, e conforta così la nostra convinzione di universalità, primazia e rilevanza assoluta della maschia, illuminata e romantica cosiddetta cultura cosiddetta Occidentale.

Nello specifico caso che riguarda anche Israele, poi, il fatto che in particolare noi italiani e i tedeschi siam stati fascisti e nazisti, e abbiamo perso la Seconda Guerra Mondiale, complica e aggrava il nostro carico mentale ed emotivo. Ciò perché nel dopoguerra ci siamo rifatti l’abito anche usando la esistenza dello Stato di Israele come una sorta di nostra personalissima e rifondativa espiazione per l’Olocausto.
Israele la entità statale, e “Israele” la entità mentale nostra, sono state sempre usate come beauty case per rifarci il trucco dopo l’orrore antisemita da noi agito. Come rileva la storica rivista di pensiero ebraico “Jewish Currents”, in un denso editoriale del 5 luglio 2023: « Nel 2008, l’allora Cancelliera Angela Merkel intervenne alla Knesset Israeliana sottolineando che garantire la sicurezza di Israele era parte della “Staatsraison” della Germania, la ragione stessa dell’esistenza dello Stato tedesco. Alla domanda sul perché valga la pena preservare un nazionalismo tedesco che ha prodotto Auschwitz, la Germania ha ora una risposta soddisfacente e storicamente simmetrica: esiste per sostenere lo Stato ebraico ».
Israele dunque – per noi cosiddetti Occidentali – è stato un luogo fisico e mentale necessario alla costruzione di una sorta di dolente-ma-non-troppo identity-first antifascism: un vago “antifascismo” di facciata, valoriale-ma-non-troppo, pure a volte retto con fatica, funzionale solo alla nostra identità e legittimità nazionale postbellica. E quindi infine, e in fondo, chissenefrega sia delle genti israeliane che delle genti palestinesi nel concreto: “prima gli italiani!“, come usa dire.
Peraltro si tratta di un “antifascismo” di facciata che svuota dall’interno ogni possibile azione di radicale contrasto all’antisemitismo, e anzi finisce per rafforzare questo mostro, riducendone il rifiuto a vessillo stinto, con cui pulirci e mani e faccia, di quella che dovrebbe essere una delle lotte centrali nel cosiddetto Occidente. Infatti l’antigiudaismo – con quel suo gemello che è il sospetto, la paura e l’odio contro Islam e cosiddetto “Mondo Arabo” – è la più viscida e velenosa serpe che s’agita fin nell’origine stessa della modernità culturale del cosiddetto Occidente, una modernità sviluppata grazie all’espropriazione e appropriazione violenta di pensiero e risorse altrui, nei secoli più ferocemente coloniali, e nata anche dalla diretta negazione e annullamento delle culture semitiche (di cui poi, qui e lì nei secoli, abbiamo continuato allegramente a nutrirci sputando nei piatti da cui mangiavamo). Infatti l’anno fatidico 1492 è sì culminato (da agosto a ottobre) con quella stramba vicenda delle Indie Occidentali e Cristoforo Colombo – capziosamente nota come “Scoperta dell’America” – ma quello stesso anno s’è avviato (2 gennaio) con la caduta di Granada, ultima roccaforte arabo-islamica in Spagna, ed è continuato (da aprile a luglio) con l’espulsione degli Ebrei dalla Spagna, cui fece eco la stessa in Sicilia (31 dicembre). È in virtù di questi violenti annullamenti antisemiti che l’anno successivo, il 1493, il Papa spartisce il (ahem! Cough cough!) “Nuovo Mondo” tra il Portogallo e la finalmente cristianissima Spagna (4 maggio, bolla papale “Inter caetera”).
Queste storie iniziano a essere rilette solo oggi – troppo timidamente e con ancora troppe ed enormi reticenze – ma i loro fili, le loro tessiture, passando per Auschwitz, intanto giungono drittedritte fino a noi, e trovano incarnazione moderna anche nelle dinamiche di autolegittimazione postbellica usando Israele, che abbiamo osservato insieme poco fa. Sono dinamiche che oggi hanno ripercussioni sull’intera Europa perché l’Italia, anche al netto della posizione geografica strategica, è pur sempre una delle fonti culturali primarie e storiche della attuale idea di Europa, di cui la Germania, con la Francia, è la nazione economicamente più determinante.

In questo quadro mentale occidentalista – sorgivamente antisemita, di ex colonizzatori, e di penitenti per convenienza – noi (non) ci assumiamo la responsabilità di leggere le attuali vicende nei territori della Palestina e di Israele, e anzi viviamo e agiamo tutto con stupidità di sciame, nella irresponsabilità più totale di fare il tifo giulivi o rabbiosi tra social e talk show. Agiamo perciò l’irresponsabilità più totale di sentenziare, di non studiare, di farci fregare dalla doppiezza e stoltezza di chi, parteggiando con tamburo mediatico battente, ci propone una evidenza non problematica nei presunti e cosiddetti “fatti” e nelle loro premesse (con argomentazioni a volte risibili, a volte mascherate più o meno bene da intellettualismi vari ed eventuali): una evidenza che invece dovrebbe allarmarci al più alto grado.

Con la consapevolezza di questo nostro quadro mentale, ora possiamo e dobbiamo osservare insieme il salto di qualità segnalato – già subito dopo il 7 ottobre 2023 – da quella prima azione di annullamento contro Adania Shibli e il suo romanzo “Tafṣīl Ṯānawī” (“Un dettaglio minore”).
Se propriodavverosulserio insistiamo a voler fare gli indifferenti omicidi-suicidi, possiamo pure correre il rischio di azzardare assurde e pericolose “cancellazioni” di qualcosa che riguarda la Russia, perché sia la Russia statale che la nostra immagine mentale di Russia sono tutt’altro che ex territori coloniali occidentali (per info più dettagliate chiedere a Napoleone Bonaparte), e non includono entità la cui esistenza abbiamo usato per ristrutturare malamente la facciata della nostra identità collassata. Invece non possiamo permetterci di correre lo stesso rischio, neppure per stanchezza o ignoranza, sulle vicende culturali che riguardano la Palestina, perché a questo punto, dopo che ci siamo chiariti tutto quanto sopra, dovrebbe esserci evidente che è in ballo la nostra stessa identità, di persone che sono nate, cresciute e vivono nella civiltà e cosiddetta cultura cosiddetta occidentale.
La identità europea e cosiddetta occidentale moderna, infatti, si è nutrita del colonialismo e dell’antisemitismo non soltanto in termini materiali, economici, ma anche culturali, mentali, fino a consolidare se stessa nell’antitesi binarista tra un astratto “Noi” e un astrattissimo “Loro”. Anche per questo motivo, con i lunghi e travagliati processi di decolonizzazione ancora in corso in tutto il Mondo, questa identità è entrata in crisi, fino a giungere al collasso attuale.
Trascurare o guardare con sufficienza azioni di annullamento delle voci palestinesi – come quello iniziale contro Adania Shibli – per noi cosiddetti occidentali significa continuare a non voler prendere atto del fatto che quell’assetto di civiltà è nel bel mezzo di una crisi epocale: civile, culturale, economica, sociale, perfino cognitiva. Ed è una crisi che, nella grande complessità delle cose, porta con sé il rischio-certezza dell’estinzione violenta della nostra specie tutt’intera.
Non possiamo trovare soluzioni alla nostra crisi, se oggi non iniziamo neppure a riconoscere che noi abbiamo un problema (le cui conseguenze avverte con disagio nel quotidiano chiunque tra noi non sia molto ricco o finga di esserlo), e poi se non riconosciamo che questo problema ha a che fare con molti fili della nostra storia e quindi di quella che abbiamo imposto. Se non individuiamo un problema, se neppure riconosciamo che un problema c’è, come possiamo provare a risolverlo?
Possiamo insistere quanto ci pare su quintessenzialità di diritto internazionale, possiamo insistere su ogni categoria presunta oggettiva, su ogni distinguo, equilibrismo e acrobazia che il nostro livello dottrinale ci consenta di elaborare per parare il nostro cervello dal lutto necessario, ma così facendo non ci resta che continuare a morire più o meno velocemente mentre assistiamo – contorti, anestetizzati o variamente drogati – al prosieguo del nostro stesso collasso.

Voci come quella di Adania Shibli e ogni voce palestinese, quindi, non solo non vanno “cancellate”, ma vanno amplificate, moltiplicate. Ciò non soltanto per ragioni di umanità e intelligenza basilari, che pure dovrebbero essere ben sufficienti, ma anche perché queste voci ci sono preziose, inestimabili nel permetterci di porre domande fondamentali a noi stessi: chi sono? Cosa ho fatto? Cosa non ho fatto? Che conseguenze hanno avuto, hanno e avranno le mie azioni o inazioni?
E ancora: cosa s’agita nelle mie viscere? Questi che sento per ebrei, islamici e non-bianchi non-ricchi, sono vero odio, antipatia, apatia? Oppure sono l’esito incancrenito e purulento di ferite antiche, inferte dai miei stessi padri al corpo della civiltà in cui ho avuto la ventura di nascere e formarmi? Quali pericolose e omicide-suicide acrobazie mentali faccio per pretendere ancora universalità, oggettività, validità assoluta delle mie categorie?

Possiamo non sapere in dettaglio le domande che Dostoevkij o Čajkovskij ci pongono con le loro opere – è lecito e molto spesso questa ignoranza non è una colpa di chi vi è costretto – ma si tratta di questioni talmente tanto fittamente tessute nelle fibre anche della cultura cosiddetta Occidentale, che chiunque può esperirle ed elaborarle, in qualche forma più o meno mediata, compreso chi tra noi è meno fortunato o meno consapevole.
Quante e quanti tra noi, invece, hanno un’idea pur vaga di opere letterarie, musicali, artistiche della storia e attualità della cultura palestinese? O perfino di quella arabofona più in generale?
Quante e quanti tra noi sono attrezzati per riconoscere validità a queste opere senza passare da categorie occidentaliste che pretendiamo legittimanti?
Quante e quanti tra noi sanno dire come ci interrogano tali opere?
Ancora prima: di che opere si tratta? Che forme hanno? Chi sono le persone che le hanno fatte? Come vivono queste persone? Ci somigliano? Parlano anche a noi?
Sappiamo che, per esempio, ci sono canzoni Hip-Hop palestinesi – molto popolari in quel che resta di quelle parti – che sono anche esito di elaborazioni femministe d’una lucidità tale da sopravanzare un gran numero di simili elaborazioni cosiddette occidentali?
Abbiamo idea del fatto che la musica d’arte palestinese si sviluppa nel ‘900 anche a partire dall’intrecciarsi di musica europea, a trazione cristiana, con la musica araba, a trazione islamica?
Queste domande possono sembrare astrattamente intellettuali ma, data la situazione e il quadro mentale nostro che abbiamo prima osservato, sono tutte questioni che aprono sentieri e generano possibilità in noi, per noi stessi.

Il salto di qualità del tentativo di annullamento delle voci palestinesi, come quello contro Adania Shibli, rispetto a quello contro Dostoevkij o Čajkovskij, consiste dunque nel privarci della possibilità stessa di fare a noi stessi domande fondamentali, che non soltanto hanno a che fare con la nostra identità individuale e sociale, ma che possono gettare basi concrete per aprire spiragli di soluzioni della nostra stessa crisi di civiltà.
In questo momento, cancellare e non promuovere voci che ci vengono offerte dalla Palestina è cioè un tentativo – dettato da ipocrisia e involutissime convenienze di alcuni – di privarci di strumenti preziosi per affrontare la crisi economica, sociale e culturale che stiamo attraversando. Insomma è qualcosa che, oltre a contribuire ad incrementare ulteriore devastazione, e quindi a spargere altro sangue (tra cui presto anche direttamente il fiero sangue di noi occidentali), ha pure a che fare col nostro caro-bollette enormemente più di quanto ci possa sembrare.
Nessuna voce è mai davvero annullabile senza conseguenze gravi per tutte, tuttə e tutti noi, ma in questo momento trascurare o silenziare le voci palestinesi è tutt’altro che un dettaglio minore.

______
[Scritto a Sambuca Zabut, Sicilia, il 22 Ottobre 2023 / 7 Rabî Ath-Thânî 1445 / 7 Cheshvan 5784]

Il quartiere al Rimal a Gaza City, distrutto dall’aviazione israeliana. Foto pubblicata il 14 ottobre 2023 / 29 Rabî Al-Awwal 1445 / 29 Tishrei 5784. L’autore dello scatto, Roshdi al Sarraj, è stato uno dei primi fotoreporter palestinesi uccisi dalle forze armate israeliane.



Preghiera in occasione del Santo Natale

Dicono che i dizionari dei sinonimi e contrari sono strumenti utili. E per certuni è vero. Per esempio lo sono a chi scrive, o a chi sente, sa o anche disperando spera che le parole abbiano le loro cose. Le hanno, le ebbero, o le possono ancora avere. Il vezzo occidentale della raccolta differenziata di parole. Queste persone a volte coincidono – chi scrive, e chi spera e in ciò stesso dispera – a volte no. Non è affare nostro giudicare chi soltanto scrive, chi spera solamente, o ancora chi scrive disperando o – a volte è lo stesso – sperando.
Per queste stesse persone i dizionari di sinonimi e contrari sono anche libri d’inganno o sortilegio. La scelta è decisa dall’avere o meno il raffreddore, o dalla guerra. La scelta, intendo, tra sortilegio e inganno. A volte non è neppure scelta, ma inganno o sortilegio di per sé. Necessità d’incantamento, urgenza di disinganno, in certi accadimenti emergenza d’un inganno, esigenza d’un canto, o pure, e non si sa se per disgrazia, fortuna o malagrazia, l’inganno necessario. Ciò – non so più se lo dicono – ciò perché la vita è quel che è, e non a tutti può piacere ma lo stesso tocca fare un qualche viso al suo buon gioco. Un po’ come tocca fare con la morte occidentale – un pleonasmo, a ben vedere senza tante distrazioni. Il viso che si può, insomma, nell’interstizio tra il proiettile nell’atrio della chiesa e il bianco tuo candor.
Chi può, sceglie. Può chi scrive, anche non potendo, può chi legge – chi legge, come te o me, può sempre, anche se spesso non lo sa. Per esempio, tra contentezza e felicità, scelgo la prima. C’è pure, dicono quei libri di sortilegi e inganni, c’è l’allegrezza, e l’appagamento, e la gaiezza, la giocondità, la gioia o la letizia, fino al piacere, la soddisfazione. Ciò per tacere dell’esultanza, del gaudio, del giubilo, il tripudio o fino l’euforia. Merry Christmas, insomma. E tra un Jingle e un Bells, nella piazza d’entroterra tutta incementata, quel libro ci dice che pure c’è la delusione, ci sono i dispiaceri, il malcontento e l’infelicità, e la malinconia, la mestizia, il malumore, e perfino – dicano quel che vogliono i Jingle e i Bells – sì, c’è perfino la tristezza. E lo scontento. O la scontenta. C’è pure insomma, per dirla alla spicciolata, che la morte l’abbiamo scordata, e non può più fare armonia. Il fisarmonicista della novena di Natale, per esempio, tanto infonde letizia nei cuor, raggranella qualche soldo all’angolo della via, ha il padre moribondo all’ospedale, e i soldi non bastano al servizio sanitario nazionale. L’ambulanza può arrivare, eppure non arriva. L’ambulanza non arriva a Betlemme, e Maria partorisce lo stesso. Lei, la vergine, partorisce sempre, ogni volta che la ruota è al suo estremo inferiore e pertanto inizia a risalire. A scaldare il cuore di sua figlia appena nata – alla destra o alla sinistra qui il padre poco conta – c’è il fisarmonicista della novena di Natale. Raggranella tutta l’allegrezza, e per scaldare i pastorelli, tutt’attorno al cratere della bomba, brucia qualche foglio di carta – troppo stampata come questa. Di là nel campo profughi le campane suonano a morto. È la vita nuova che bussa alla tua porta. Dicano pure quel che vogliono i libri contabili, è certo che nascere è sempre una gran fatica. Dal fiume al mare l’incanto delle cose nella ruota che risale, la letizia della festa, il proiettile nell’atrio della chiesa. “Yule! Yule!” – dice la sorte della bimba appena nata da Maria. Eid meelaad majeed, meelaad sa’eed. E jingle jangle, jingle jangle — bells, bells.




[ © gianluca cangemi
– scritto a Sambuca Zabut il 23 dicembre 2023 / 10 Jumâda Ath-Thânî 1445 / 11 Tevet 5784




La sirena Marina e il nuovo molo di Palermo

« [Marina] sapeva storie meravigliose, le aveva imparate quando viveva nel mare con le altre sirene. […] Erano storie di tutti i popoli e di tutti i tempi; delle genti che l’una dopo l’altra avevano messo piede sulla terra siciliana o ne avevano corso il mare: Fenici, Cartaginesi, Greci, Romani, Arabi, Normanni, Francesi, Spagnoli, Italiani… E storie di pesci, di mostri sepolti negli abissi marini, di navi affondate e spolpate lentamente dall’acqua. »
(da “La sirena di Palermo” di Gianni Rodari, in “Il libro degli errori”, Einaudi, 1964)

– Lady Gaga: “Hold my hand”
– David Guetta feat. Sam Martin: “Dangerous”
– Andrea Bocelli: “Con te partirò”
(Brani scelti per l’inaugurazione, il 13 ottobre 2023, di Marina, la nuova fontana danzante del nuovo molo di Palermo. La fontana è ispirata alla piccola sirena Marina, protagonista della favola “La sirena di Palermo” di Gianni Rodari)

Il rinnovato molo della città di Palermo è ovviamente benvenuto, e altrettanto lo è la sua nuova fontana danzante. La restituzione di una parte di città, a chi la abita e a chi vi transita, è sempre di per sé una buona notizia. Questa restituzione, in particolare, contribuisce a sanare una frattura violenta del rapporto tra la città e il suo mare che andava avanti dalla fascistissima distruzione del Castello a Mare nel 1923, si è incancrenita coi bombardamenti del 1943, ed è diventata monumento alla catastrofe con la cancerosa “ricostruzione” (?!) postbellica. Quindi le ragioni del “cosa” di questo nuovo molo mi paiono ineccepibili e da accogliere con benevolenza. Si può discutere sul fatto che altrettanti investimenti, altrettanto urgenti e vistosi, andrebbero fatti sulle ex borgate marinare oltre Sant’Erasmo, ovviamente col protagonismo progettuale imprescindibile di chi lavora, da ormai decenni, alla de-estinzione sociale e culturale di quelle aree, ma questa discussione secondo me è meglio farla in termini di anche, non di al posto di: vogliamo di più, vogliamo tutto.

Non sono così esperto di architettura da saper valutare con totale cognizione di causa progetto e realizzazione del rinnovamento del molo, ma, nella misura di quanto io ne capisca, paiono buoni. È un’elaborazione del lutto che tiene conto della storia del sito, ricreandone in pianta la memoria e rendendola camminabile, e contribuisce a connettere il fronte marino col tessuto urbano del centro storico. Si può ovviamente discutere pure su questo, perché ci sono diverse scuole di architettura, diversi indirizzi progettuali, diversi punti di vista su tutto, ma in generale mi pare che si possa dire che si tratta di un progetto valido e serio, esito di studio sensibile, e che la esecuzione sia pure buona, perciò gli onori a chi l’ha fatto siano resi, senza dimenticare l’iniziativa di chi dirige l’ente committente. Si celebri chi ha i giusti meriti! Cioè Pasqualino Monti che amministra l’Autorità Portuale in successione ad Antonio Bevilacqua, e lo studio di architettura palermitano del progetto di Sebastiano Provenzano con Anna Igea Garretto, Federica Omodei e Giulia Lupo.
E insomma pure il “come” mi pare che si possa accogliere con festosa benevolenza.

C’è un dettaglio di questo “come” che non mi convince, e secondo me è importante parlarne, perché il diavolo è sempre nei dettagli. Ok, il diavolo può pure starmi simpatico, ma siam d’accordo che – simpatico o antipatico che ci stia – è un tipo che si trova a suo agio nei dettagli?
Questo dettaglio del “come” è nella scelta di canzoni fatta per l’inaugurazione, tre brani di Pop internazionale.

È piuttosto immediato cogliere le buone ragioni di chi ha curato questa selezione. I brani ascritti a Lady Gaga e David Guetta si prestano bene a essere facilmente coreografati con gesti netti e didascalici, e il brano ascritto a Guetta è arrangiato con sonorità che rimandano alla stereotipizzazione di ciò che riconosciamo generalmente come “Musica Classica”, cui attribuiamo qualifiche di eleganza, grazia e, appunto, classicità, caratteristiche che vogliamo associate a una nuova fontana, e in questo brano c’è pure clamore, energia e una certa epicità Pop, che rendono più facile l’assimilazione di questo messaggio. Quindi buona scelta. Entrambi i brani hanno, in forma e arrangiamento, forti contrasti di vuoto e pieno, nonché in quello che (impropriamente ma per le vie brevi) chiamiamo “ritmo”, il che rende molto più facile la coreografia con una fontana danzante, perché i brani con meno contrasti di pieno e vuoto, quindi con maggiore continuità ritmica percepita (ad esempio, per capirci: “Thriller” di Michael Jackson) questi altri brani sono più complicati e sfidanti da coreografare. Il terzo brano, “Con te partirò”, è una delle più diffuse e note canzoni Pop che alludono al viaggiare, quindi è una scelta molto facile per uno spettacolo nella fontana danzante di un porto.

Osservo anche che “Con te partirò” (nella versione in inglese con Sarah Brightman) è uno dei brani fissi della spettacolare Dubai Fountain, nella cui selezione musicale è stabilmente anche Lady Gaga. Ed è qui che s’insinua il dettaglio del diavolo, cioè sorge il sospetto che una apparentemente innocua selezione Pop (in sé appropriata) sia spia di vera e propria propaganda ideologica, o comunque denunci l’adesione a una specifica ideologia senza neppure farci caso. Questa selezione di brani Pop, infatti, legittima a figurarci che la funzione degli spettacoli della fontana Marina – destinatari turisti e residenti – sia quella di far assimilare la percezione di “Palermo” a quella di “Dubai”, cioè di far percepire che Palermo, come Dubai, è nodo rilevante di quella visione del mondo in cui le differenze di lingua, fede e cultura non sono barriere ma ponti verso la convivenza e il benessere. Questa è l’immagine che Dubai fornisce, o vorrebbe fornire. E mi pare che chiunque possa essere d’accordo, in linea di principio, con l’edificante proposito di un mondo siffatto. L’inghippo è che questa immagine di modernità e futuro è fondata – a Dubai clamorosamente e follemente – su un bislacco Comunismo dei privilegi, in cui le cose buone, alla pari e con libero accesso, sono solo per i più fortunati o – in un’ottica che azzera i contesti concreti di partenza – per i più cosiddetti “meritevoli”. E il resto di noi, se intanto non è già morto per nutrire le cose buone per i soli privilegiati, si arrangi e chissenefrega, o al meglio s’accontenti di sognare l’accesso al mondo dei Comunisti-dei-privilegi, in uno spasimo demenziale senza fine.

Sappiamo che la costruzione e la funzione di un monumento non sono e non possono essere ideologicamente neutre, e anzi ogni monumentalità (e spettacolarità) è sempre in funzione degli interessi di qualcuno. Non si tratta sempre e necessariamente di interessi economici diretti, ma anche, forse soprattutto, di interessi reputazionali e/o propagandistici, per influenzare i valori e la visione del mondo di tutti gli altri esposti al monumento, allo spettacolo, con gesti in spazio pubblico fatti con nonchalance, grandiosi, stupefacenti, o anche “solo” gradevoli e piacevoli.
In altri tempi – pur recenti ma ormai passati – era molto facile identificare le persone o i ruoli che traevano vantaggio da un monumento o da uno spettacolo: marchesi, baroni, re e regine, imperatori, dittatori, papi, vescovi e preti, istituzioni repubblicane cui necessitava stabilire un codice valoriale tra le e i propri cittadini, o ancora multinazionali, o grandi major dello spettacolo connesse ad aggregati di potere economico e sociale facilmente identificabili, e così via.
Oggi è molto, molto più complicato individuare a chi giova un monumento o uno spettacolo. Ancor più complicato è individuare poi il come giova, e il perché. Però sono questioni che dovremmo sentire come centrali, in un mondo come il nostro che al momento non pare versare in ottime condizioni, né avere prospettive granché rosee.

C’è un grosso dibattere sul tema dell’intervenire nello spazio pubblico, come pure, allargando, c’è un dibattere ancora più grosso su cosa oggi intendiamo o possiamo intendere con la parola “pubblico”. Non è la sede e il momento per addentrarci in questi dibattiti, però al fondo è di questo che stiamo cercando di parlare, o almeno su questo stiamo cercando di porre alcuni dubbi – altro strumento del diavolo! – affinché le cose buone fatte possano essere ancora migliori.

Che funzione ha (e avrà) dunque Marina, la nuova fontana danzante al molo di Palermo?
Vuole e vorrà davvero raccontare – come la sirena della favola cui è dichiarata ispirata – le “storie di tutti i popoli e di tutti i tempi; delle genti che l’una dopo l’altra [hanno] messo piede sulla terra siciliana o ne [hanno] corso il mare: Fenici, Cartaginesi, Greci, Romani, Arabi, Normanni, Francesi, Spagnoli, Italiani… E storie di pesci, [di umani morti e lasciati morire, di altri che li hanno salvati, e] di mostri sepolti negli abissi marini, di navi affondate e spolpate lentamente dall’acqua”?
Oppure Marina, questa nuova fontana, vuole e vorrà tradire il suo nome e la sua infanzia, e farà solo la sirena pervertita di quell’illusione neoliberista feroce che polarizza tutto (centro contro periferia, turisti contro residenti, israeliani contro palestinesi, etc…) e – nella continua conta di “vittime civili” – salva il solo vertice dell’infame piramide di Comunisti-dei-privilegi?






Imperfetto

In sé dal mare il cielo
la luce a babordo navigando
e dal tuo sguardo l’arcangelo
segna le linee del tuo azzardo.
È scandalo matrilineare!
E a Nord, di là dei colli,
l’iprite del maschio coloniale…

Ma tu tra le maree
rossosangue t’affacci,
a mezzo e luna e notte,
da balaustre di peonie
con le sorelle e scacci,
a sangue di tamburo,
fandonie e colonie,
e glorie e storie titanie,
pretorie – e cerimonie.

Dal sorgere ricusi
progenie del padre infetto,
intenta a canzonare nenie
suonando un Tuba mirum
con tube di falloppio:
in allegretto.
Finalmente,
imperfetto



Sambuca Zabut, 8 luglio / 8ottobre, 2023
© 2023 Gianluca Cangemi (SACEM)













La vessazione della taranta

Mastra è la donna mia ch’a tutti l’uri / cantandu canta leta la mia morti

[versi dall’Ottava Siciliana riportata/elaborata da Athanasius Kircher in “Magnes Sive De Arte Magnetica” (Roma, 1641)]
___

C’è stato un tempo, a noi vicino fin quasi a sovrapporsi al(l’assenza/indistinzione del) nostro.
Fu un tempo altro (altra), in cui la violenza produceva il Sacro – o almeno poteva produrlo.
Fu tempo di Femmina, ancòra e perfino nel corpo d’ogni Cristo di paese, in ogni lacrima lignea di Madonna – d’udienza o addolorata che fosse – lacrime di cui era a ciascun chiaro, senza che bisognasse analisi d’allittràti, l’essere state albero, e albero quindi poter tornare dopo il pianto di noi umani condiviso e compartito.
Tempo di Femmina – nascosto senza analisi, manifesto senza dichiarazioni – nel corpo d’ogni Cristo e Madonna feriti, non come nella violenza d’oggi (maschia, assoluta e sempre assolta) che solo se stessa pare sapere e voler produrre; violenza, questa d’oggi, abile soltanto a fare e far fare martiri nati morti (troppo più spesso: morte), icone disseccate che neppure figure sono mai reputate – al più avatar su Telegram e TikTok, o gingilli di carne da poter bruciare e stuprare senza temere ira d’alcun dio né dea – figurarsi quindi se mai possono essere immagini, e men che meno corpi che, anche coi figli e non esclusivamente nei figli, fanno e sanno fare e far fare le immagini.
Tempo fu, questo di Femmina, in cui erano violente e temute l’effrazione (la nascita e la morte), il trauma (la nascita e la morte), la crisi, e la successiva melanconia cui seguiva la sua ri-soluzione in rito; crisi mutata in canto dalla, ancòra!, violenza del battere, fino al sangue, pelle d’animale morto a muovere corpo e terra (il tamburo); crisi mutata in canto dalla, ancòra!, violenza risolta del rifare vita in canto dal ventre della pecora (la ciaramèdda, zampogna), e le canne (i pipìti, le ance) – dai bordi dei locali luoghi d’acque presidio di ninfe – complici necessarie all’assassinio consapevole dell’animale da mutare in vita nova.
Si riconfiguravano così, con uso circolare e collettivo della violenza, crisi variamente declinate e declinabili – dal disagio individuale a quello sociale – non solo provocando l’intersezione della realtà quotidiana, cruda e difficile, con l’immaginazione (collettiva: immaginario), ma anche trovando e ri-centrando, nel e col ritmo-canto, una misura sopportabile della violenza, e proprio con quella stessa violenza. Ciò non solo ciclicamente, con le ricorrenze religiose, comunitarie, ma anche all’occorrenza, in interventi di cura estemporanei ove se ne presentasse l’urgenza.

Tra le varie e molte cose fatte di recente anche da e con me – alcune clamorose, e pur tutte senza clamori fintoegocentrati – tra queste v’è stata una condivisione nel mio paese, Sambuca Zabut in Sicilia. L’abbiamo fatta in uno spazio piuttosto defilato, nient’affatto vistoso o monumentale, riappropriato dopo molti decenni d’abbandono. Vi ho condiviso dal vivo, con alcune mie compaesane e compaesani, un sound piece mai reso pubblico prima, tirato fuori per l’occasione, ancora grezzo, dal mio diario segreto d’artista che chiamo “Il bosco sacro”. Con questo mio sound piece, e in dialogo con esso, ne ha condiviso uno suo Andrea Ciccarelli, amico e collega musico romano (con origini sarde e abbruzzesi), ospite nostro in paese in quel momento.
Il pezzo di Andrea – una Natura Viva perché Natura Naturans – generava fasce sonore in divenire, intonate a partire da acque, canti d’uccelli e suoni di bosco, ed è stato condiviso dopo il mio, sostanzialmente sovrapponendovisi in coda, senza interruzione tra l’uno e l’altro.
Il sound piece mio è stato invece realizzato quasi del tutto (diciamo un buon 95%) con sonorità fatte con sintetizzatori degli anni ’70 del secolo scorso (fatto anomalo nelle mie opere di ‘sto tipo, che di solito elaboro e compongo a partire da e con suoni “reali”, come ha fatto Andrea a ‘sto giro). In questo sound piece ho addensato una melanconia quasi funebre, remota e feroce – e violenta fino a sollecitare, senza varcarlo, il suo punto di rottura in aggressione sonora – melanconia e violenza tenute sempre sulla soglia tra introflessione ed estroflessione; e vi ho rimodulato la percezione dello scorrere del tempo in una apparente sospensione quasi totale del tactus (cioè, per capirci, il “tun-z tun-z” delle canzoni), sospensione ottenuta dilatando gli accenti ritmici (metrici) a sfidare percezione e memoria a breve termine di chi ascolta – ciò senza che però la sfida fosse dichiarata o ne fosse il fine (tutt’al contrario, anzi, visto che ‘sto sound piece è sorto da una mia improvvisazione estemporanea coi sintetizzatori in studio, e solo molto dopo mi sono accorto, con gran sorpresa, che la sua forma era scandita da suddivisioni del tempo corrispondenti con esattezza a numeri di Fibonacci…).
La condivisione dunque è consistita in una trentina di minuti di immersione sonora a forte pressione, cioè ad alto volume, seduti per terra nella stanza quasi buia, immersione in cui le e i presenti – nessuno tra i quali “sapiente d’arte” – hanno partecipato alla trasformazione di una melanconia violenta, al limite dell’aggressività, in una natura naturante, sospendendo il tempo quotidiano degli affari, del lavoro, della obbligatoria euforia da vacanza estiva, delle convenzioni sociali (anche quelle in cui borghesia e mercanti hanno fatto piombare le arti…) e delle relative ipocrisie.

Alla fine l’applauso è partito dopo una sospensione calma e tesa insieme, e – tornata la luce e rialzatisi – le e i presenti avevano cambiato prossemica, i loro corpi più morbidi eppure non disciolti, presenti a se stessi e nello spazio con gli altri corpi, una luce negli occhi diversa da prima, le parole di riconoscenza agli artisti dette con voce più grave, calma e appoggiata che la usuale di chi le pronunciava, e il desiderio di un “ancora!”, un oltre.
Uno tra i presenti – il bello, spavaldo e sensibile figlio del meccanico del paese, meccanico a sua volta – ci ha abbracciati, con riconoscenza irrazionale (un ri-conoscersi tra umani in un gruppo sociale di pari), e ha poi notato anche alcuni oggetti subliminali – per esempio una minuscola evocazione sonora del tema de “Il Padrino”, appena accennata, davvero molto nascosta, infilata con nonchalance nel flusso sonoro in uno dei suoi picchi di violenza – un segno, questo suo, che la percezione analitica e quella sintetica, la razionale e l’irrazionale, si erano fuse nel momento della condivisione dell’opera d’arte.
Un altro tra i presenti ha osservato come sia straordinariamente bello e importante (lo riporto con le sue parole) “stare con se stessi, senza un ritmo, ad ascoltarsi”, e, nel ringraziarlo, risposi che in realtà il ritmo, di per sé, nei sound pieces ovviamente c’era, ma era gestito e proposto diversamente, perché se il ritmo sociale attuale – quello dei soldi, dei social, dei telegiornali e del lavoro – ci viene usato contro con violenza da gente violenta, allora noi lo rimoduliamo con tutta la stessa violenza ma a fin di bene comune, e ciò semplicemente perché possiamo farlo, anche se non siamo artiste o artisti, e al limite chi lo fa con arte serve intanto a ricordarci che questo potere – l’immaginazione umana che è quindi immaginazione sociale – lo abbiamo ancora: nostro è il ritmo, nostra la misura delle cose, insieme.

Elaborando poi l’esperienza e le reazioni a essa – nei giorni successivi mentre già facevo altro – mi venne viavia in mente che, in fin de’ conti, Andrea e io, con le compaesane e i compaesani, abbiamo usato mezzi modernissimi (sintetizzatori, campionatori, computer, elettricità, e sonorità e tecniche riconoscibili da chiunque fruisca anche solo Pop da classifica), per realizzare e reclamare qualcosa che, se non è quell’antico tempo di Femmina di cui abbiamo detto più sopra, molto gli somiglia, e lo abbiamo fatto con quelle stesse modalità e intenzioni con cui, in quel tempo, la violenza mortifera veniva usata contro se stessa, infatti non soltanto abbiamo violentato ad arte la percezione del tempo e di se stessi in e con chi era presente, ma gli strumenti con cui lo abbiamo fatto (i sintetizzatori e tutto il resto) sono nati e sono stati sviluppati per scopi bellici, tra la prima e la seconda Guerra Mondiale, con l’intenzione violenta di portare o contribuire a portare morte e devastazione, e solo in seguito ci si è accorti che li si poteva usare per altri scopi (dalle telecomunicazioni alla Techno ai satelliti, fino a un piccolo e non reclamizzato/reclamizzabile “rito” in un paese delle aree interne in Sicilia).

Tutto questo, nel mio e nostro paese, è accaduto scientemente senza folklore (“fuori dal Folkmarket”, avrebbe forse detto l’antropologo Luigi M. Lombardi Satriani), senza che neppure ci fossero citazioni o usi vistosi (appropriati dalla borghesia) o “nostalgici” delle musiche di tradizione (fu) popolare, cioè la pizzica, tarantella, pastorale – oggi neutralizzate e commercializzate (da c.detta “Sinistra”…) in “musica etnica”, “world music” – cioè quelle musiche che, in quel tempo e in queste stesse zone, erano intese a sortire questi o analoghi effetti tra individui in una comunità.
E questo è accaduto, anche, senza che i corpi si muovessero o ballassero esibizionisticamente (un effetto che peraltro, se e quando lo vogliamo, sia Andrea che io siamo perfettamente in grado di indurre), è accaduto senza passerelle d’artisti, politici e direttori artistici, e senza che neppure gli occhi avessero sollecitazioni: non soltanto le e i partecipanti erano quasi al buio, ma gli stessi artisti-performer, noi che elaboravamo in tempo reale i sound pieces, eravamo in un’altra stanza, dietro una porta, non visti. Abbiamo pure chiesto, prima dell’inizio della condivisione, di spegnere gli smartphone, o di metterli in modalità aereo: non per un astrattissimo e borghesissimo “rispetto dell’arte e degli artisti” (?!?) ma perché tanto non c’era proprio niente, nell’esperienza che stavamo facendo, di tiktokabile o di instagrammabile: nonostante l’illusione che ci hanno indotto, su cui si reggono commercialmente questi strumenti cosiddetti social, non puoi tiktokare o instagrammare te stessa, te stesso, le viscere, il sudore, la morte, l’amore, il sangue, la storia e la preistoria, la Femmina in e con te…

La nostalgia del tempo che fu – lo nota bene, con poetico rigore, l’antropologo Vito Teti, che del già citato Lombardi Satriani è stato allievo – questa nostalgia può assumere i tratti del prosciugamento e dell’uccisione nostra, del nostro passato e dei nostri futuri, i tratti dell’appropriazione e abuso più feroce e indifferente, fin festoso – a scopo di commercio, di propaganda, o più schiettamente di devastazione per l’utile privato; questi sono i tratti oggi assunti con grande facilità (una facilità colpevole da parte di chi è in posizione di fare e far fare diversamente). Oppure, la stessa nostalgia (ma, vien da chiedersi, è davvero la stessa..?) può ancora diventare sorgente, strumento e vettore dell’oltre: insieme, noi. Oltre la violenza d’oggi, e ben oltre certe (e certificate omicide-suicide) “magnifiche sorti e progressive”. Cos’è oggi la violenza in te? Com’è? È da te, o ti è stata indotta? Come la usi? E l’euforia? E la nostalgia? Puoi usarle diversamente, se siamo insieme?








Appesa a un filo

« LO SPAZIO RETTANGOLARE MINACCIA LO SPAZIO CURVO?
LO SPAZIO CURVO MINACCIA LO SPAZIO RETTANGOLARE?” »

« […]
Se il sasso diventa una testa di
animale troppo presto non è bene
se diventa tardi passando per un
autoritratto è bene
[…] »

« Quello che c’è di emozionante nella vita quotidiana non è il folklore ma che essa è appesa a un filo e questo filo anche se è resistente è completamente senza folklore.
È un filo che lega la terra al sistema copernicano prima ed einsteiniano dopo, il filo che continua a svolgersi per ogni oggetto o corpo della terra rivoltandolo nella materia stellare senza pensare a come esso corpo veste o non veste, estraneo alle invenzioni del folklore. […]
La materia è numerabile dice la cultura. La materia per noi poveracci destinati a farci forgiare nel capitale è unicamente per noi il folklore. […] Questa è l’esperienza delle masse irritate dall’arte, illuse dagli aspetti del folklore di cui l’arte si intride.
Che cosa si può fare di diverso dalla sottocultura come genere di folklore? La sottocultura minaccia veramente gli ambienti asettici della cultura o essa stessa vive come una muffa nell’ombra dei grandi stabilimenti di produzione e di consumo?
La sottocultura è una muffa inquinata, come gli aspetti più retrivi della vacanza è il modo più facile per divertirsi senza volere dare fastidio allo sviluppo della democrazia borghese e bombardiera. L’atteggiamento più feroce di questa democrazia è l’arte quando essa assalta senza disprezzo i brutti confini della nostra vita quotidiana. »

[citazioni dagli scritti di Mario Merz, raccolti in Voglio fare subito un libro (a cura di Beatrice Merz. hopefulmonster, 2005)]
___

Una casa editrice, fonografica o d’arte è, e non può non essere, un progetto a sua volta d’arte. Lo stesso le organizzazioni di cosiddetta produzione d’arte, come pure quelle di cosiddetta comunicazione.
Tutto ciò, oggi e d’urgenza, ha cioè da ubbidire a un’idea, visione-azione, diametralmente opposta a quella del mondo-come-mero-mercato.
Vale a dire: deve fuoriuscire dal Realismo Capitalista per ritessersi in e con la realtà.
Realtà che in sociale – avvilente ricordarlo anche e soprattutto a chi ha strumenti e tempo per ben saperlo – è nient’altro che una tessitura cangiante di continue e fitte negoziazioni tra ciò che ogni (fin singola) persona della specie umana chiama “realtà”.
Al pari di ogni altra attività umana non finalizzata al solo utile privato a scapito di altri umani – per esempio: una guerra o la compravendita di un’opera d’arte – le arti non possono essere pertanto indagate, agite, abitate attraverso un approccio tecnoscientifico (in reciproca immanenza con la corrispondente narrazione-marketing) preteso e presunto oggettivante la realtà. Tale approccio infatti pone ogni indagine, azione e abit-azione a serio (certo) rischio di deflagrazione specializzante, atomizzazione-senza-legami, metafisicizzazione-a-babbo-morto, se e visto che leggiamo-agiamo la parola “oggettivo” solo come il contrario polare di “soggettivo”, in una contingenza – l’attuale capitalismo – in cui il Soggetto (de facto e, sempre più fascistizzando, anche de iure) è nient’altro che singola fattispecie di un Oggetto ideologico di una minoranza violenta, ormai compiutamente costituita in subcultura che si pretende non soltanto cultura ma perfino, significhi quel che significhi, natura: i soliti socioantropologicamente intesi Ricchi coi loro sgherri e i loro servi.

L’immagine è l’opera
statement #7: “Barns have no windows”
di SANDRA BOX



Rumuz-E-Bekhudi: “Street Secrets” / “Segreti ambulanti”

STREET SECRETS

We are all street hawkers—
calling out, spreading,
showcasing, displaying,
heckling, selling—

our stories;

only to earn,
by the evening of a tiring lifetime,
a few morsels of belongingness.




“Street Secrets” by Rumuz-E-Bekhudi
(Published on Inversejournal.com: 20 June 2021)

SEGRETI AMBULANTI

Non siamo che mercanti
e in strada vendiamo
mostriamo e dimostriamo
pressanti strilliamo

le nostre storie.

E tutto il guadagno,
alla sera di ‘sta vita sfiancante,
non è che smozzichi d’appartenenza.




Traduzione/Translation: Gianluca Cangemi (5 Agosto 2023)


Rumuz-E-Bekhudi è lo pseudonimo usato da poeta e traduttrice kashmira, e di lingua kashmira, la cui identità anagrafica è, per meditata scelta dell’autrice, non disvelata. È noto che è ingegnera di formazione, che lavora anche come traduttrice letteraria professionista da e verso l’inglese, e che viene da famiglia in cui le arti e la musica sono di casa. Nei suoi versi, diretti quanto meditati, emergono il senso di indipendenza, l’urgenza dell’emancipazione, la determinazione e la resistenza in un contesto problematico e doloroso – e spesso dimenticato – come quello del Kashmir, luogo di culture e tradizioni millenarie, ricche e raffinatissime, segnato da un lungo conflitto e dai processi complessi e violentissimi lasciati in eredità dal colonialismo europeo e dai suoi esiti recenti e attuali.

NdT: Il titolo della poesia, “Street Secrets“, può essere tradotto letteralmente come “Segreti di/della/in strada”. Ho scelto di tradurlo con l’italiano “Segreti ambulanti” per rendere fin nel titolo l’immagine guida della poesia, senza però contravvenire al senso letterale del titolo inglese, del resto già e pur sottilmente allusivo.
Metri, prosodia e sincopi nella versione italiana alludono a, e derivano da un intendimento sincretico dell’Elegia, intesa e per temi e per forme (classiche, ellenistiche, moderne), che l’originale inglese m’è parso suggerire, sia con la sua temperatura emotiva che con gli accenti.









Rumuz-E-Bekhudi: “English Medium” / “Licenza d’inglese”

ENGLISH MEDIUM

The vowels of the English language
conceal the fatigue of the struggles faced
while making it to the end of every month,
rationing survival until another paycheck.

The consonants of this language
beautify the scars of shame
bestowed by rabid, howling necessities.

The idiom and the accent
sweetens the bitter taste of hogging
at used clothes, books and
love sometimes.

How poverty draped in English
cradles middle class pride.





“English medium” by Rumuz-E-Bekhudi
(Published on the authoress’ Facebook profile: 14 October 2022.
Published on Inversejournal.com: 23 October 2022)

LICENZA D’INGLESE

Le vocali della lingua inglese
celano lo stremo delle lotte affrontate
per arrivare ogni volta a fine mese
– razionando stenti fino al prossimo stipendio.

Di questa lingua le consonanti
imbellettano cicatrici d’onta
omaggio d’urgenze rapaci, urlanti.

Lo stile e l’accento edulcorano
il gusto amaro dell’accaparramento
di vestiti e libri e
d’amore talvolta
– tutti di seconda mano.

Oh, com’è culla all’orgoglio della middle class
la povertà agghindata d’inglese!




Traduzione/Translation: Gianluca Cangemi (2 Agosto 2023)


Rumuz-E-Bekhudi è lo pseudonimo usato da poeta e traduttrice kashmira, e di lingua kashmira, la cui identità anagrafica è, per meditata scelta dell’autrice, non disvelata. È noto che è ingegnera di formazione, che lavora anche come traduttrice letteraria professionista da e verso l’inglese, e che viene da famiglia in cui le arti e la musica sono di casa. Nei suoi versi, diretti quanto meditati, emergono il senso di indipendenza, l’urgenza dell’emancipazione, la determinazione e la resistenza in un contesto problematico e doloroso – e spesso dimenticato – come quello del Kashmir, luogo di culture e tradizioni millenarie, ricche e raffinatissime, segnato da un lungo conflitto e dai processi complessi e violentissimi lasciati in eredità dal colonialismo europeo e dai suoi esiti recenti e attuali.

NdT: Il titolo della poesia, “English Medium“, può essere tradotto letteralmente come “Lingua inglese”. Ho scelto di tradurlo con l’italiano “Licenza d’inglese” confortato da una nota della poeta, in cui fa riferimento all’ironia crudele del titolo in relazione al sostanziale obbligo, nei fatti, per le e i parlanti non nativi anglofoni, di dover studiare la lingua coloniale. Col titolo “Licenza d’inglese” m’è quindi parso di poter sintetizzare il senso italiano di “diploma d’inglese” e una allusione crudelmente ironica alla “licenza di uccidere” di un ben noto quintessenziale personaggio letterario e cinematografico inglese.









Pisatùra / Trebbiatura

Pisatùra

‘Unn’è tempu accammòra
p’accabbàri lu travàgghiu…
‘U cavaddu sparti la pagghia cu ‘u furmentu
quannu ‘u pani fa lu primu passu
e pì purtàllu a la mola
ieu ci spiu a lu ventu.
Aùstu ‘unn’avi abbentu
e gghiàvutu è lu suli,
e ‘a luci ‘o scuru brilla
‘nt’a l’àrma di la petra ardenti
– e ‘a vuci pigghia la corda d’u paisàggiu.

Trebbiatura

Del cavallo il primo passo
da cui nasce il pane
sull’aia ipnosi e spighe
nell’ora più calda d’agosto
l’incanto quartitonale
a separare la paglia dal frumento
a invocare il vento
– portalo alla macina, per pietà!
La luce in tenébra splende
nel ventre della pietra in fuoco
– e prende la voce misura del paesaggio.




Sambuca Zabut, 29 luglio 2023
© 2023 Gianluca Cangemi (SACEM)

(NdG: i due testi non sono uno la traduzione dell’altro. È piuttosto la stessa scena, momento, immagine, pensati e scritti nelle mie due lingue madri: il siciliano, l’italiano. Ho annotato le sensazioni-quasimmagini che informano i due testi, e a seguire, elaborando gli scarnissimi spunti, ho composto per primo il testo in siciliano, e poi quello in italiano, provvedendo a far passare tempo sufficiente affinché dimenticassi i versi già composti in siciliano.

Annotazione per le e i siculofoni: non sorprendetevi di trovare parole o suoni provenienti da diverse aree dialettali della nostra lingua siciliana. Non è artificio da allittràtu, è soltanto che ho avuto la ventura, fin da neonato, d’assorbire parlate e intonazioni da diversi luoghi (nonni delle valli dello Iato e del Belìce, tata nebroidea con origini catanesi, frequentazioni salentine, soci madoniti, amanti siracusane, anni trascorsi nel palermitano, e così via).